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La c.d. privatizzazione del rapporto di lavoro ha comportato, fra l'altro, la devoluzione alla cognizione del giudice del lavoro di tutte le controversie inerenti ad ogni fase del rapporto, dalla sua instaurazione fino all'estinzione (compresa ogni fase intermedia, relativa ad eventuali vicende modificative).

Il diritto privato del lavoro costituisce, dunque, la disciplina generalmente applicabile anche all'impiego con le amministrazioni pubbliche, salvo specifiche disposizioni dettate per determinate materie, anche di particolare rilevanza (reclutamento e costituzione del rapporto, parità di trattamento contrattuale, rappresentanza negoziale e procedimento di formazione della volontà del soggetto pubblico), che attribuiscono alla disciplina del rapporto caratteristiche particolari, ricollegabili proprio alla natura pubblica del datore di lavoro ed ai vincoli costituzionali posti alla sua attività.

Il Titolo IV del Libro Secondo del Codice di procedura civile contiene le "Norme per le controversie di lavoro". Giudice competente per le controversie di lavoro in primo grado è il Tribunale – in funzione di giudice del lavoro, appunto ex art.413, comma 1 - nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto (art.413, comma 3; nonché in materia l'art.48-quater R.D. 12/1941).

La domanda si propone con ricorso (art. 414).

Il ricorso, che tra l'altro deve contenere l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda (con relative conclusioni) e, a pena di decadenza, "l'indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione" (ex artt.414, n.4 e 5, e 420, commi 1 e 5), deve essere depositato nella cancelleria del giudice insieme ai documenti in esso indicati.

Il giudice, entro cinque giorni dal deposito del ricorso, fissa con decreto l'udienza di discussione alla quale le parti sono tenute a comparire personalmente (art.415, comma 2). Il ricorrente deve notificare ricorso e decreto di fissazione dell'udienza al convenuto entro dieci giorni dalla data di pronuncia del decreto e in ogni caso tra la data di notifica del ricorso e l'udienza di discussione debbono intercorrere trenta giorni (v. artt. 415, comma 4, e 417, comma 4).

L'art. 415 u.c., cod. proc. civ. prevede norme più specifiche per la notifica alle pubbliche amministrazioni.

Il convenuto deve costituirsi in giudizio almeno dieci giorni prima dell'udienza mediante deposito in cancelleria di una memoria difensiva (esente da bollo) nella quale devono essere proposte, a pena di decadenza, le eventuali domande riconvenzionali (v. artt. 36 e 418) e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio (art.416 Cod. proc. civ.); nella stessa memoria il convenuto "deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda, proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto ed indicare specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi e in particolare i documenti che deve contestualmente depositare" (art.416 cit., comma 2). Ai sensi dell'art.420, comma 1, seconda parte, c.p.c., durante l'udienza di discussione le parti possono modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate solo se ricorrono gravi motivi e previa autorizzazione del giudice.

In primo grado le parti possono stare in giudizio personalmente quando il valore della causa non eccede Euro 129,11 (art.417), ma l'art.417-bis stabilisce che le pubbliche amministrazioni, sempre limitatamente al giudizio di primo grado, "possono stare in giudizio avvalendosi direttamente dei propri dipendenti". E' anche previsto che gli Enti Locali possano utilizzare le strutture dell'amministrazione civile del Ministero dell'Interno (art.417-bis, u.c.).

Il rito del lavoro potrebbe esaurirsi in un'unica udienza (art.420), laddove non vi siano prove da assumere o queste possano essere assunte nel corso della stessa udienza di discussione. In ogni caso, ai sensi dell'ultimo comma dell'art.420, le "udienze di mero rinvio sono vietate".

Dell'udienza di discussione di cui all'art.420 cod. pro. civ., vanno peraltro distinte una fase preliminare (verifica regolarità atti e costituzione delle parti; integrità del contraddittorio; interrogatorio libero delle parti; tentativo di conciliazione; ammissione delle prove), una fase istruttoria (per l'assunzione delle prove) ed una fase decisoria (discussione orale della causa e decisione).

Le parti, come si è visto, sono tenute a comparire personalmente; la mancata comparizione personale delle parti senza giustificato motivo "costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini della decisione" (art.420, comma 1; v. anche il comma 2 sulla rappresentanza). Il giudice interroga liberamente le parti presenti e tenta la conciliazione della lite. Va qui ricordato che, ai sensi dell'art.66, comma 8, D.Lgs. 165/2001, "La conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione (...) in sede giudiziale ai sensi dell'articolo 420, commi primo, secondo e terzo, del Codice di procedura civile non può dar luogo a responsabilità amministrativa".

Il verbale di conciliazione ha efficacia di titolo esecutivo (art. 420, comma 3).

Nel rito del lavoro il giudice dispone di ampi poteri istruttori (v. artt. 421 e 425): può indicare alle parti, in ogni momento, le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate; può disporre d'ufficio, in qualsiasi momento, l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dai limiti stabiliti dal Codice civile ad eccezione del giuramento decisorio (si esclude, tuttavia, che il giudice possa superare i limiti di cui agli artt. 2731, 2737 e 2739 c.c.); su istanza di parte può disporre l'accesso sul luogo di lavoro e l'esame in loco dei testimoni; può ordinare la comparizione (per interrogarle liberamente sui fatti di causa) anche di quelle persone che, ai sensi dell'art.246 c.p.c., siano incapaci di testimoniare; etc. L'art. 64, comma 5, d. lgs. 165/2001 prevede che l'ARAN e le organizzazioni sindacali firmatarie del contratto o accordo collettivo nazionale possano intervenire nel processo anche oltre il termine previsto dall'art.419 c.p.c. "e sono legittimate, a seguito dell'intervento, alla proposizione dei mezzi di impugnazione delle sentenze che decidono una questione" concernente l'efficacia, la validità o l'interpretazione del contratto o accordo collettivo nazionale". L'ARAN e le stesse organizzazioni sindacali "possono, anche se non intervenute, presentare memorie nel giudizio di merito ed in quello per cassazione".

L'art.63-bis d.lgs. 165/2001, introdotto dall'art.1, comma 134, legge 30/12/2004, n°311, statuisce che "L'ARAN può intervenire nei giudizi innanzi al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, aventi ad oggetto le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (...), al fine di garantire la corretta interpretazione e l'uniforme applicazione dei contratti collettivi."

La legge finanziaria per il 2005 ha altresì introdotto il comma 1-bis all'art.61 d. lgs. 165/2001, ai sensi del quale "Le pubbliche amministrazioni comunicano alla Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica e al Ministero dell'economia e delle finanze l'esistenza di controversie relative ai rapporti di lavoro dalla cui soccombenza potrebbero derivare oneri aggiuntivi significativamente rilevanti per il numero dei soggetti direttamente o indirettamente interessati o comunque per gli effetti sulla finanza pubblica. La Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica, d'intesa con il Ministero dell'economia e delle finanze, può intervenire nel processo ai sensi dell'articolo 105 del codice di procedura civile."

Ai sensi dell'art.423 c.p.c., il giudice, in ogni stato del giudizio, può disporre con ordinanza – titolo esecutivo - il pagamento delle somme non contestate ovvero di una somma a titolo provvisorio (a favore del lavoratore) "quando ritenga il diritto accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene raggiunta la prova".

Raccolte le prove (commi 5, 6, 7 e 8 dell'art.420 c.p.c.; e art.424 c.p.c. sull'assistenza del consulente tecnico), il giudice invita le parti alla discussione orale, al termine della quale le stesse precisano le loro conclusioni. Subito dopo la discussione orale il giudice pronuncia la sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo (ex art.429 c.p.c.). "Il giudice, quando pronuncia la sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro (...) deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto" (art.429, comma 3 c.p.c.). Il cumulo di interessi e rivalutazione monetaria previsto dall'art.429, comma 3 c.p.c., si scontra, però, con l'art.22, comma 36, della legge 23/12/1994, n°724, dichiarata costituzionalmente illegittima con riguardo ai soli crediti dei lavoratori del settore privato.

Ai sensi dell'art.432 c.p.c., quando sia certo il diritto ma non sia possibile determinare la somma dovuta, il giudice la liquida con valutazione equitativa.

La sentenza deve essere depositata in cancelleria entro quindici giorni dalla pronuncia e il cancelliere deve darne immediata comunicazione alle parti (art.430 c.p.c.).

Le sentenze pronunciate dal giudice del lavoro sono provvisoriamente esecutive già ai sensi del novellato art. 282 c.p.c., tuttavia, l'art.431 c.p.c. statuisce che "Le sentenze che pronunciano condanna a favore del lavoratore per crediti derivanti dai rapporti di cui all'articolo 409 sono provvisoriamente esecutive. All'esecuzione si può procedere con la sola copia del dispositivo, in pendenza del termine per il deposito della sentenza. Il giudice di appello può disporre con ordinanza non impugnabile che l'esecuzione sia sospesa quando dalla stessa possa derivare all'altra parte gravissimo danno (...). Le sentenze che pronunciano condanna a favore del datore di lavoro sono provvisoriamente esecutive e sono soggette alla disciplina degli articoli 282 e 283. Il giudice di appello può disporre con ordinanza non impugnabile che l'esecuzione sia sospesa in tutto o in parte quando ricorrono gravi motivi".

L'appello si propone con ricorso davanti alla Corte d'Appello territorialmente competente in funzione di giudice del lavoro (art.433 c.p.c.) entro trenta giorni dalla notificazione della sentenza (art.434 c.p.c.). Sono inappellabili le sentenze che abbiano deciso una controversia di valore non superiore a euro 25,82 (art.440 c.p.c.), impugnabili tuttavia in Cassazione ai sensi dell'art.111 Cost.: "Contro le sentenze (...) è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge". Va qui ricordato che, ai sensi dell'art. 63, comma 5, d.lgs. 165/2001, nelle controversie individuali di pubblico impiego contrattualizzato (art.63, comma 1, d.lgs. cit.), nelle controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ed in quelle promosse da organizzazioni sindacali, dall'ARAN o dalle pubbliche amministrazioni in materia di procedure di contrattazione collettiva (comma 3 art.63 cit.), nonché nel caso di cui al comma 3 dell'art.64 d.lgs. cit., il ricorso per cassazione può essere proposto anche per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali.

L'appellato deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell'udienza mediante deposito in cancelleria del fascicolo e di una memoria difensiva, "nella quale deve essere contenuta dettagliata esposizione di tutte le sue difese" (art.436 c.p.c.).

Se propone appello incidentale, l'appellato deve esporre nella stessa memoria i motivi specifici su cui fonda l'impugnazione. L'appello incidentale deve essere proposto, a pena di decadenza nella memoria di costituzione, da notificarsi, a cura dell'appellato, alla controparte almeno dieci giorni prima della udienza di discussione.

Non sono ammesse nuove domande ed eccezioni. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova (tranne il giuramento estimatorio), salvo che il collegio, anche d'ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa.

Nell'udienza di discussione il giudice incaricato fa la relazione orale della causa. Il collegio, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella stessa udienza. La sentenza deve essere depositata entro quindici giorni dalla pronuncia (artt.437 e 438 c.p.c.).

Il ricorso per cassazione è disciplinato in via generale dagli artt.360-394 c.p.c., interessati dalle recenti modifiche di cui al d.lgs. 2/2/2006, n. 40 ( artt.2, 6 e 13); in sede di (eventuale) rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti al quale la Corte ha rinviato la causa (art. 394, comma 1, c.p.c).

Un cenno a parte merita la competenza del giudice ordinario in materia di comportamento antisindacale.

L'art. 37, L . n. 300 del 1970 afferma espressamente l'applicabilità di tutte le norme dello Statuto dei lavoratori agli enti pubblici economici.

Per quanto attiene, invece, al pubblico impiego in generale, in tema di condotta antisindacale non esisteva, fino all'entrata in vigore del d.lgs. n. 165 del 2001, una disciplina ad hoc.

Un passo avanti verso una completa applicabilità del procedimento in esame a tutto il pubblico impiego si è avuta grazie all'art. 6, L . n. 146 del 1990, sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, il quale ha introdotto due commi all'art. 28 poi, però, abrogati dall'art. 4, L . n. 83 del 2000.

In tale periodo, il 6° comma dell'art. 28 prevedeva espressamente l'esperibilità dell'azione a tutela dell'interesse sindacale anche nei confronti dello Stato mentre il 7° comma era dedicato alla soluzione dei delicati problemi di giurisdizione sorti tra quella ordinaria e quella amministrativa. In particolare, il problema era stato risolto affidando al giudice del lavoro le controversie in tema di repressione della condotta antisindacale dello Stato e degli enti pubblici non economici, con la sola devoluzione delle stesse al giudice amministrativo nel caso in cui all'astratta plurioffensività della condotta seguisse una richiesta del sindacato di rimuovere anche i provvedimenti lesivi di situazioni soggettive inerenti al rapporto di impiego pubblico.

Oggi, a seguito della c.d. "privatizzazione" del pubblico impiego, l'intera materia è regolata dall'art. 63, d.lgs. n. 165 del 2001, che devolve al giudice del lavoro tutte le controversie relative a comportamenti antisindacali delle Pubbliche Amministrazioni.

Infatti:

3. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell'articolo 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, e le controversie, promosse da organizzazioni sindacali, dall'ARAN o dalle pubbliche amministrazioni, relative alle procedure di contrattazione collettiva di cui all'articolo 40 e seguenti del presente decreto

Attualmente, l'unico punto critico rimane quello attinente le condotte antisindacali plurioffensive, cioè quelle condotte che hanno l'effetto di incidere direttamente sulla posizione del singolo dipendente, oltre che violare diritti del sindacato strettamente collegati a quelli del medesimo lavoratore (c.d. diritti sindacali connessi o correlati): per tale fattispecie la giurisdizione del giudice ordinario è stata riservata al caso in cui non venga contemporaneamente richiesta dal sindacato ricorrente anche la rimozione del provvedimento ritenuto lesivo.

A proposito della legittimazione attiva è interessante sottolineare che la Giurisprudenza di merito tende ad escludere che, nel caso in cui il sindacato lamenti la violazione delle sue prerogative verificatesi nel corso di trattative svolte a livello nazionale, esso possa agire ai sensi dell'art. 28 l. 300 del 1970, e ciò tanto nel caso in cui il ricorso venga promosso direttamente dagli organismi nazionali (vi osta il dettato del primo comma dell'art. 28 che legittima all'azione i soli organismi locali delle associazioni sindacali), quanto nel caso in cui il ricorso venga proposto dagli organismi locali (in quanto manca il necessario collegamento tra il soggetto attore e l'interesse leso dalla condotta datoriale che è generale e nazionale).

Per quanto riguarda la legittimazione passiva è stato ripetutamente escluso che il procedimento ex art. 28 l. n. 300 1970 possa essere promosso contro l'Aran perché questa non riveste la qualità di parte datrice di lavoro e ciò neppure nel caso in cui l'organizzazione sindacale si dolga di condotte imputabili proprio all'Arana (come nel caso di esclusione dalle trattative nazionali).

Stessi limiti si pongono tutte le volte in cui il sindacato lamenti la violazione di regole proprie della contrattazione nazionale: l'unica strada percorribile è, infatti, quella ordinaria.

Per lo stesso motivo non è stata ammessa l'esperibilità del procedimento in questione contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri nei casi in cui questa non era parte del rapporto di lavoro, ma aveva solamente impartito le direttive in attuazione delle quali l'Ente pubblico datore di lavoro aveva posto in essere la condotta considerata antisindacale.

Andando nello specifico alla casistica giurisprudenziale:

Ai sensi dell'art. 63 comma 3 d.lg. 30 marzo 2001 n. 165, appartengono alla giurisdizione del g.o. le controversie aventi ad oggetto non solo comportamenti antisindacali delle p.a., ma anche le procedure di contrattazione collettiva (Consiglio Stato, sez. IV, 14 aprile 2006, n. 2155).

L'art. 63 d.lg. 165/01 nel prevedere la devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative ai comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni non si riferisce a tutte le pubbliche amministrazioni, ma solo a quelle per le quali si può parlare di intervenuta privatizzazione del rapporto di lavoro (Tribunale Reggio Calabria, sez. lav., 18 ottobre 2004).

È manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3, 24 e 25 cost., la q.l.c. dell'art. 63, comma 3, d.lg. 30 marzo 2001 n. 165, nella parte in cui non demanda alla cognizione del giudice amministrativo le controversie promosse dalle organizzazioni sindacali ai sensi dell'art. 28 l. 20 maggio 1970 n. 300, qualora il comportamento antisindacale dedotto sia lesivo anche di situazioni soggettive inerenti ai rapporti di impiego del personale in regime di diritto pubblico, previsti dall'art. 3 del medesimo d.lg. n. 165 del 2001, in quanto il criterio di riparto della giurisdizione, introdotto dall'art. 6 l. n. 146 del 1990 e successivamente espressamente abrogato ad opera dell'art. 4 l. n. 83 del 2000, non fa sorgere q.l.c., bensì esclusivamente di interpretazione sistematica della norma denunciata, essendo possibile sia a) un'interpretazione secondo la quale l'art. 63, comma 4, d.lg. n. 165 del 2001, varrebbe a devolvere tuttora al giudice amministrativo tutte "le controversie relative ai rapporti di lavoro di cui all'art. 3", e, quindi, anche l'azione ex art. 28 st.lav. che quei rapporti di lavoro coinvolga, sia b) un'interpretazione secondo la quale l'abrogazione del citato art. 6 comma 1, l. n. 146 del 1990, comporterebbe in ogni caso la devoluzione al giudice ordinario dell'azione ex art. 28 st. lav. promossa dall'organizzazione sindacale, anche se tale azione incidesse, attraverso la richiesta di rimozione degli effetti del comportamento antisindacale, su rapporti di lavoro non "privatizzati", mentre il pubblico dipendente potrebbe far valere la sua situazione soggettiva individuale davanti al giudice amministrativo ex art. 63, comma 4, cit. Entrambe tali interpretazioni valgono a risolvere alla radice i problemi che il rimettente solleva quali q.l.c., in quanto quella sub a) comporta il persistere della situazione preesistente alla legge n. 83 del 2000, e quella sub b), implica o b1) una prevenzione del paventato conflitto di giudicati, attraverso il coordinamento, ex art. 295 c.p.c., dell'azione individuale con quella promossa dal sindacato, ovvero b2) la radicale negazione di ogni possibilità di conflitto pratico di giudicati, riconoscendo la totale autonomia delle due azioni in quanto volte a tutelare distinte situazioni sostanziali, sicché deve escludersi la violazione dei parametri evocati, prospettata sulla premessa che una disciplina irragionevolmente inidonea a prevenire conflitti pratici di giudicati si risolva in una compressione del diritto di difesa ed in un'arbitraria individuazione del giudice munito di giurisdizione (Corte costituzionale, 24 aprile 2003, n. 143).

Nel nuovo sistema delineato dall'art. 4 della legge n. 83 del 2000 e dall'art. 63, comma 3, del d.lg. n. 165 del 2001, è attribuita al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, una cognizione incondizionata in materia di condotta antisindacale delle pubbliche amministrazioni, di tal che essa non trova ostacolo nella circostanza che il comportamento addebitato all'ente pubblico si sostanzi in un formale provvedimento amministrativo del quale, insieme ai suoi effetti, sia richiesta l'eliminazione (Cassazione civile, sez. un., 24 gennaio 2003, n. 1127).

Appartengono alla cognizione del giudice ordinario le controversie riguardanti il comportamento antisindacale del datore di lavoro pubblico, anche con riferimento alle categorie di pubblici dipendenti - quale, nella specie, le forze di polizia - escluse dalla privatizzazione, ai sensi dell'art. 3 d.lg. n. l65 del 2001 (Consiglio Stato, sez. I, 12 giugno 2002, n. 1647).

Il principio secondo cui, ai fini dell'individuazione del giudice competente per territorio a decidere sul ricorso proposto ai sensi dell'art. 28 della legge n. 300 del 1970 si deve avere riguardo al luogo in cui viene posto in essere il comportamento asseritamente antisindacale, ancorché costituisca attuazione di una deliberazione assunta in luoghi diversi, trova applicazione anche in caso di determinazioni assunte dalla p.a., le quali in materia non possono considerarsi come esercizio di poteri amministrativi, ma quali atteggiamenti che non hanno valore e regime giuridico diversi da quelli di un privato datore di lavoro, stante la consistenza di diritti delle situazioni soggettive in materia deducibili da parte del sindacato. (Nella specie un'associazione sindacale del personale della scuola lamentava la mancata ammissione alla sottoscrizione di un contratto collettivo decentrato, in base a decisione assunta al riguardo in sede ministeriale) (Cassazione civile , sez. lav., 17 gennaio 2001, n. 616).

In base all'art. 16 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29 ("Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 l. 23 ottobre 1992 n. 421") il quale espressamente dispone che "i dirigenti generali promuovono e resistono alle liti ed hanno il potere di conciliare e transigere" deve ritenersi attribuita ai dirigenti generali della p.a. la legittimazione processuale attiva e passiva nelle controversie riguardanti l'amministrazione cui sono preposti, non trovando alcuna base nella legge cit. una limitazione dei poteri e delle funzioni di detti dirigenti nell'ambito cosiddetto negoziale e sostanziale. Ne consegue che il direttore provinciale delle Poste e Telecomunicazioni è passivamente legittimato nella controversia con la quale ne venga denunziata la condotta antisindacale ai sensi dell'art. 28 dello statuto dei lavoratori onde a lui deve notificarsi il relativo ricorso introduttivo (Cassazione civile, sez. un., 27 luglio 1998, n. 7349).

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